Giovedì scorso sono stato a Modena per parlare di demenza. Il Gruppo Ceis ha organizzato l’incontro “Parole per resistere”, aperto ai familiari e agli addetti ai lavori. Durante l’evento ho citato “Il vecchio Re nel suo esilio”, libro dello scrittore austriaco Arno Geiger. Mi serviva per spiegare perché non si deve far ragionare un malato di demenza. Infatti, dire come stanno le cose non serve a nulla, se non a metterlo sulla difensiva, a creare una barriera tra di noi. All’inizio l’ho fatto anch’io, perché – mentre spiegavo – mia madre iniziava a ricordare le cose. Ma quando la sindrome avanza, di certo non si rivela l’atteggiamento migliore da adottare.
Potevo leggere uno dei racconti con Lucia ma ho scelto le parole di Geiger per far capire che tutti quelli che hanno a che fare con la demenza vivono le stesse situazioni.
Il malato segue un ragionamento che, anche se completamente errato, è del tutto logico. Come dice lo stesso Geiger suo padre «approdò a una logica personale così sorprendente che in un primo momento non sapevamo se ridere, stupirci o piangere».
Una signora del pubblico, una curacara, ha detto che grazie a me ha capito che il suo atteggiamento non era giusto. Da un lato mi ha fatto piacere perché vuol dire che quell’incontro è stato utile ma dall’altro mi è venuta rabbia, perché non sono di certo io quello che dovrebbe spiegare a un familiare come ci si rapporta con una persona colpita da demenza.
Questa è la dimostrazione che la strada da fare, purtroppo, è ancora molto molto lunga, che si deve continuare a raccontare, a sensibilizzare.
Su Youtube è stato caricato il video dell’incontro. Purtroppo, nella parte finale, non si riescono a sentire bene le domande del pubblico e l’intervento del Dottor Fabbo.
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[Un giorno mia sorella si stancò di ascoltare ancora le sue preghiere e le sue insistenze. Ogni cinque minuti ripeteva che a casa lo aspettavano, era insopportabile. Per il nostro stato d’animo di allora, quelle infinite ripetizioni superavano ogni limite di tollerabilità.
Helga uscì con lui per strada e annunciò: «Questa è la tua casa!».
«No, questa non è la mia casa» replicò mio padre.
«Allora dimmi dove abiti».
Lui disse la strada e il numero civico.
Trionfante, Helga indicò la targa con il numero civico accanto alla porta d’ingresso e chiese: «E qui cosa c’è scritto?».
Lui lesse ad alta voce l’indirizzo che aveva detto poco prima.
Helga chiese: «Allora, cosa ne dobbiamo concludere?».
«Che qualcuno ha rubato la targa e l’ha avvitata qui» rispose seccamente mio padre – interpretazione fantasiosa, ma non priva di logica.]