
Quando entro in cucina trovo mia madre che sta cercando di mordere le chiappe di Cicciobello. Sorrido e chiedo: «Lucì, che fai? Lo sai che non devi mordere Cicchiniello?».
Lei mi guarda, saluta muovendo su e giù la testa e dice «Ah no?». Poi chiede se va tutto bene.
«Sì, non mi posso lamentare. E tu, stai bene?».
«Bene, grazie».
Posa il bambolotto sul tavolo e dice qualcosa che non capisco, qualcosa tipo «E ‘ndo stievano quelli lo garido se stassa zato». Io, ripetendo le ultime tre parole, rispondo che quelli stanno tutti a posto.
Lei capisce, sorride e chiede: «Ma le palle le vuoi?».
«Già le tengo, grazie».
«Meglio così».
Si può dire che “meglio così” sia il mantra del caregiver. Mia madre diceva “Meglio così che peggio” ma io, in questi ultimi cinque anni, non sono mai riuscito a capire cosa sia peggio. Se da un lato la gestione è diventata più semplice perché Lucia ha perso l’energia e la forza che aveva due/tre anni fa (all’apice dei suoi disturbi comportamentali), dall’altro è diventata molto più complicata a livello medico e a livello emotivo. Quindi, a volte mi chiedo, cos’era peggio?
Passano pochi minuti e la badante si avvicina con un bicchiere pieno d’acqua. Le dico di darlo a me, che ci penso io.
«Tieni Lucì, bevi che questa è buona».
«Io piglialo là».
«Sì, poi lo pigliamo insieme ma ora bevi che questa è l’acqua della fontana».
«Malitato… Malato».
«Malato?».
«Eh».
«Vuoi che prendo io quelli malati?».
«Sì» dice, poi inizia a bere.
«E che ci faccio con quelli malati, li guarisco?» chiedo sorridendo.
In quel momento Lucia scoppia a ridere e mi sputa l’acqua in faccia.
Forse, in tutti questi anni, l’ha capito anche lei che io i malati non li so ancora guarire.