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Sembrava fosse un comico invece era un cantante
I Giuradei, al Summerelse Festival, si sono dimostrati trascinanti come sempre. Il quartetto bresciano ha presentato canzoni dell’ultimo album insieme a successi tratti dai dischi precedenti. Abbiamo incontrato Ettore e Marco Giuradei, per fare una panoramica generale, dagli inizi teatrali di Ettore all’ultimo, sofferto, lavoro.
Ettore, hai iniziato a scrivere canzoni a diciassette anni ma la cosa che più mi sorprende è che a vent’anni facevi l’attore in spettacoli comici; senza offesa, posso dire che non ti ci vedo?
(ride) Invece funzionava bene. È stata davvero una bella scuola anche se, a essere sinceri, all’inizio volevo frequentare il Dams a indirizzo musicale. Il problema è che, per farlo, mi sarei dovuto trasferire a Bologna. Così ho scelto di restare a Brescia, seguendo quello teatrale; ho frequentato un paio di laboratori e da lì è iniziata quest’avventura.
Il tuo modo di stare sul palco, quindi, nasce da lì?
Sì, per quattro o cinque anni ho fatto parte di una compagnia che realizzava degli spettacoli di teatro comico gestuale e ho fatto tantissime date di teatro di strada; alla fine, forse, sono quelle che riescono a insegnare di più, anche a livello delle tue potenzialità. Diciamo che il mio modo di stare sul palco a volte è anche un modo per rifugiarsi.
Dal primo disco, più acustico, siete passati al rock per arrivare al cantautorato de “La Repubblica del sole”; ora, con “Giuradei”, avete cambiato ancora genere, pur mantenendo il vostro stile. Il progetto si rinnova senza ripiegarsi su se stesso.
Mi fa piacere questa lettura e trovo che sia perfettamente calzante. Credo sia anche normale cambiare direzione, perché a volte cambiano i compagni di viaggio e altre volte sono le sensazioni a essere diverse; da questo, per forza di cose esce un modo diverso di registrare e, di conseguenza, dei prodotti diversi l’uno dall’altro. La cosa più bella è che sono tutti uniti dall’autore delle canzoni, che sono io (sorride).
I tuoi testi a volte contengono riferimenti sociali, penso a “Sta per arrivare il tempo” e “Papalagi”; come nascono?
Di solito, i testi che mi piacciono di più sono quelli che nascono da una mia reazione alle situazioni della vita; ad esempio, i due pezzi che hai citato sono nati da due momenti di rabbia. Ammetto che nell’ultimo disco, in generale, ho preferito evitare la vena sociale e politica. Come in “Mi dispiace amore mio” dove abbiamo tolto una bestemmia iniziale, messa lì come provocazione, nel timore che potesse essere equivocata.
Diciamo, quindi, che i tuoi sono testi di pancia.
Sì; ho cercato di mantenere quella sicurezza, quella verità che avverto nei miei momenti di reazione istintiva. Per fare un esempio, ho provato a fare diverse modifiche a “Papalagi”, cercando di renderla meno diretta, ma tutto quello che ho scritto in seguito non riusciva a rendere come il testo originario. Diciamo che cerco di mantenere quella linea.
Perché la scelta di registrare una cover degli Otto Ohm (“Senza di noi”)?
Conoscevo gli Otto Ohm solo per aver letto il loro nome nelle recensioni di qualche rivista musicale, diversi anni fa. Poi la mia ragazza mi ha fatto sentire questo pezzo e, dopo tanto tempo, ho provato di nuovo il desiderio di imparare un testo a memoria. Così è nata l’esigenza di realizzarne una nostra versione.
Nel disco c’è anche la partecipazione di GianCarlo Onorato in “Continuano a volare”, una canzone che tocca proprio le sue corde.
Quella con Giancarlo è stata la conoscenza più interessante degli ultimi anni a livello artistico. Ci ha coinvolto per una compilation dedicata a Luigi Tenco, in cui abbiamo suonato “La ballata della moda”. Da lì è nata questa amicizia che, forse, mi ha anche influenzato parecchio; quando ho composto questo brano, mi è sembrata una cosa naturale coinvolgerlo.
E quella di Jairo Depedro Zavala (Calexico), alla chitarra in “Senza di noi”?
Con Depedro abbiamo in comune la stessa agenzia di concerti. L’anno scorso ha fatto due date a Brescia con il progetto solista e così l’abbiamo ospitato a dormire a casa nostra. È un bel personaggio. In “Senza di noi” non riuscivamo a trovare la giusta chiusura e Marco gli ha chiesto se voleva collaborare. Lui ha subito trovato l’idea giusta.
Pensavo che il nuovo disco sarebbe uscito per la vostra Mizar, invece è stato pubblicato con la Picicca. Possiamo reputarlo un salto in avanti?
I primi tre dischi sono stati tutti coprodotti con la Mizar, che è gestita da me, da Marco e da Davide Danesi. Abbiamo sempre lavorato per conto nostro e ogni volta che ci siamo affidati a un ufficio stampa abbiamo avuto delle brutte collaborazioni. Soprattutto con il disco precedente. Anche per “Giuradei” volevamo uscire per conto nostro ma a fine estate abbiamo incontrato Matteo Zanobini della Picicca; sapeva che stavamo lavorando al nuovo disco e così abbiamo iniziato questa collaborazione e ci troviamo molto bene.
Parlando de “La Repubblica del Sole”, so che nei primi provini dalla track list mancavano due delle canzoni migliori dell’album.
Sì, non c’erano né “La repubblica del sole” né “Strega”. Questi due pezzi sono nati proprio quando ci hanno convinto a ritardare l’uscita del disco per provare una collaborazione con un produttore (Paolo Iafelice, ndr). Poi bisogna dire che Paolo è stato molto bravo. Avevamo già concluso la prima parte del lavoro e lui, come prima cosa, ha chiesto di sentire qualche brano che era stato scartato per il disco. Onestamente non avevo voglia, perché avevamo lavorato tanto su quelle canzoni per riuscire ad avere un determinato suono. Poi, quando gli abbiamo fatto sentire quei due pezzi, abbiamo deciso insieme di registrarli e aveva ragione lui, visto che sono diventati due singoli.
Credo che uno dei vostri punti di forza siano i concerti.
Ettore: È il modo che abbiamo per sopravvivere. Non riuscendo a fare quel “saltino”, girando in tour possiamo permetterci di dire che siamo dei musicisti.
Marco: Anche perché lo possiamo dimostrare (ridono).
Cosa pensate manchi per fare questo “saltino”?
M: Forse ci vogliono ancora un po’ di tempo e di pazienza. C’è di buono che, nonostante in Italia i cachet continuino a diminuire, nei nostri concerti c’è un costante aumento di pubblico.
E: Ed è faticoso anche far passare l’idea di un progetto complesso che non si può semplificare con un titolo. Ci sono circa cinquanta band che girano su e giù per l’Italia con i concerti e nessuno che lavora in radio ne parla. Se devo essere onesto, a un certo punto non volevo più realizzare il disco.
Per quale motivo?
Esco da un periodo un po’ confusionale. Lo scorso anno mi sono chiesto se aveva ancora senso continuare a suonare. Si tornava a casa dai concerti e si entrava in studio; uscivamo dallo studio e si pensava ai concerti e alla promozione. È tutto molto delicato e a volte ti fai coinvolgere da pressioni esterne. Tutta una serie di riflessioni a cui non voglio ripensare. Il disco è stato concluso da Marco e il risultato mi è piaciuto molto. È per questo che ho deciso di firmarlo solo come Giuradei, così come il primo era firmato a nome di “Malacompagine”, perché era più un lavoro di band.
Quindi, Marco, non ti sei occupato solo degli arrangiamenti?
Principalmente sì; poi ho fatto qualche modifica in corsa e ho lavorato con Ettore sui pezzi. Ovvio che poi anche i musicisti hanno fatto la loro parte.
Visto che voi siete una delle band con l’agenda dei concerti sempre piena, c’è qualche episodio curioso che vi è capitato?
Di recente al Montalbano Folk Festival c’era una vecchietta che avrà avuto circa ottant’anni; a un certo punto, prima del concerto, si è piazzata a circa due metri dalle casse e quando abbiamo iniziato a suonare ho pensato che sarebbe finita male. (ridono) Invece è stata lì per tutta l’esibizione; secondo me era sorda.
(Pubblicato su Shiver)