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Martedì 6 agosto al Santeria Summer Club di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), i Black Eyed Dog si sono esibiti in un concerto molto intenso. Il progetto è nato nel 2007 da un’idea di Fabio Parrinello, che ha preso in prestito il nome da una canzone di Nick Drake. Nel corso del 2012 si è allargato con l’ingresso di Alessandro Falzone e Anna Balestrieri. Abbiamo parlato con Fabio di questa evoluzione, dei suoi inizi solitari e dell’ultimo lavoro in trio, l’energico Ep Early Morning Dyslexia uscito solo pochi mesi fa.
Le foto sono di Michela D’Amico.
Nei primi due dischi solisti risaltava un forte amore per Nick Drake, che ti è valso paragoni importanti. Con le canzoni di quale artista hai iniziato a suonare?
Mi hanno attribuito molti riferimenti da Elliott Smith a Devendra Banhart e Mark Lanegan. Però tra la voce di Smith e quella di Lanegan c’è un mondo di ottave completamente diverso e mi sorprende riuscire a ricordare entrambi; forse sono stati ascolti poco attenti. Di sicuro l’approccio con lo strumento acustico nasce con Neil Young e con Bob Dylan, che posso definire quasi una malattia. Per l’approccio elettrico mi rifaccio al punk rock, dai Ramones ai Clash, dai Dead Kennedys ai Nirvana. Sono stati fondamentali per il mio suono e mi hanno fatto capire quanto è importante essere istintivi e puri il più possibile.
La scelta dell’inglese è stata una necessità, una questione di suono o la difficoltà di scrivere musica in lingua italiana?
È stata una cosa molto naturale. Grazie a cugini e fratelli, ho iniziato ad ascoltare subito i cantanti che dicevo prima; ai cantautori italiani sono arrivato molto dopo. Di certo la lingua inglese è più semplice, sia da suonare sia da cantare. E poi, non credo di essere così bravo a scrivere canzoni in italiano; posso farlo per altri, ma a cantarle non mi sento a mio agio.
Entrambi quei dischi (“Love is a Dog From Hell” del 2007 e “Rhaianuledada (Songs to Sissy)” del 2009) sono stati prodotti dalla Ghost Records. Come mai si è interrotto il rapporto?
È stata una cosa naturale. Rispetto agli inizi, entrambi abbiamo preso direzioni diverse. Così si è deciso di chiudere il rapporto lavorativo ma resta un bel rapporto di amicizia e di stima reciproca.
Nel 2012 “Too Many Late Nights” è stato il disco della svolta, a livello strutturale e di stile. Cosa ti ha spinto a cambiare rotta, a far diventare il tuo progetto un trio?
Era da due anni e mezzo che giravo l’Italia sempre da solo, cantando piano e voce per sessanta, novanta minuti; tutto bello ma iniziava a deprimermi. Sapevo già che il progetto doveva prendere un’altra direzione. Così, sono tornato a fare quello che facevo quando avevo quindici anni. Una regressione, se vogliamo, voluta e necessaria. E positiva. Oggi mi diverto di più, dividiamo le responsabilità ed è tutto meno pesante.
Disco, tra l’altro, mixato da Hugo Race e da J.D. Foster. Com’è nato l’incontro e com’è stato lavorare con loro?
Abbiamo lavorato a distanza con entrambi, Hugo in Australia e J.D. in America. Hugo frequenta Catania da parecchi anni; quindi, tramite conoscenze comuni, gli abbiamo chiesto se fosse interessato a collaborare. J.D. l’ho conosciuto mentre lavorava al disco di Fabrizio Cammarata (Rooms). Abbiamo passato delle belle serate e così, anche se si tratta di due stili molto diversi, abbiamo iniziato a immaginare il disco. C’è un filo conduttore che lega tutti i brani dell’album ma si riesce a intuire il loro apporto. Siamo stati fortunati e sono nate belle amicizie, anche perché loro spesso sono qui in Sicilia.
Dove, ultimamente, c’è un bel fermento.
In effetti, negli ultimi tre anni sono nati molti progetti di qualità che fanno invidia al resto d’Italia. Penso a Dimartino, ai Pan del Diavolo, a Niccolò Carnesi, ai Waines; da Palermo è uscita una gran quantità di progetti con un livello qualitativo molto al di sopra della media. Al punto che, forse, si è persa l’opportunità per creare qualcosa di più grande. Si poteva incanalare quell’energia in un modo più produttivo, in qualcosa di più ampio che potesse dare una svolta reale.
Parliamo dell’ep Early Morning Dyslexia. Produzione sempre della 800A Records, si riprende il discorso del lavoro precedente. Come sono nate le canzoni? Con il trio è cambiato il modo di scrittura dei brani?
I brani nascono sempre da me e poi vengono proposti ad Alessandro e ad Anna. A quel punto le canzoni o mantengono la struttura con cui sono nati oppure assumono un’altra veste. Un brano può nascere anche in due minuti, altre volte il lavoro diventa molto più complesso.
Le canzoni parlano della precarietà dei sentimenti, dell’istinto, delle decisioni; come mai la scelta di racchiuderle in un Ep? È un lavoro che chiude una fase della tua vita?
È stata una scelta sconsigliata da tutti, anche dall’etichetta. Onestamente, questo Ep non ha nessuna valenza commerciale ma è solo un’esigenza personale. Si è chiusa una fase della mia vita e ho avuto la necessità di inserire in quei cinque pezzi quello che avevo da dire. Nonostante abbia sempre avuto un rapporto conflittuale con i miei testi, questi mi piacciono molto, anche se fanno ancora male.
Il vostro è un suono molto internazionale. Com’è la risposta italiana nei vostri confronti?
Nell’ultimo anno c’è stata un’apertura maggiore nei confronti dei Black Eyed Dog, nonostante la nostra non sia una proposta in italiano. Ho sempre pensato che la musica non sia una questione di lingua, che deve passare altro. Se una canzone ha qualcosa di magico al suo interno, ti smuove; vuoi per la pronuncia di una parola, per la cadenza o, soprattutto, per il suono.
Hai vissuto molti anni all’estero e poi sei rientrato in Italia. Malinconia, casualità o un percorso ben preciso?
In Inghilterra ho vissuto per sei anni; lavoravo in cucina e studiavo musica, armonia e teoria. Diciamo che si è chiuso un periodo ma senza nessun rimpianto. Essendo una persona molto curiosa, ho sempre soddisfatto tutte le curiosità che avevo.
Vi siete esibiti anche all’estero; avete mai pensato di puntare a quel mercato?
Abbiamo suonato in diversi contesti, tra cui il Sziget Sound Fest. Posso dirti che si tratta di un mercato molto difficile, nel quale è necessario investire molto per ottenere risultati minimi, sia a livello di energia sia a livello economico. Però l’idea c’è. Il prossimo anno decideremo da quale paese iniziare, contatteremo i booker e organizzeremo alcune date. Non sarà semplice perché non basta né essere bravi né avere le canzoni, ma è una cosa molto stimolante.
Attualmente quali sono gli ascolti che ti accompagnano nel tour?
Non sto ascoltando cose nuove. Ho in loop da nove mesi il disco degli At The Drive In, In utero dei Nirvana, From Her To Eternity di Nick Cave, i Clash e i Dead Kennedys.
Niente Mark Lanegan?
I suoi Screaming Trees sono stati uno dei gruppi fondamentali! Penso ai primi album, a Buzz Factory a Sweet Oblivion che è un album clamoroso così come Dust, l’ultimo. Anche i suoi primi due album da solista sono molto belli.
Per chiudere, una curiosità: il progetto OcchioneroCane (qui “La canzone di Chico”) avrà mai un seguito?
(ride) È stato solo un esperimento e una bella esperienza. Ho scelto di fare quel lavoro con Cesare Basile per la stima e perché si trattava, per me, di qualcosa di diverso. Il risultato è stato buono ma non mi sono mai sentito a mio agio a cantare quel brano in italiano.
Mentre saluto Fabio che va a ultimare il soundcheck con Alessandro e Anna, mi accorgo di non aver chiesto nulla su “Con il fiato sospeso”, il documentario di Costanza Quatriglio. Ispirato da una storia vera, il filmato vede Anna recitare la parte di una musicista indie-punk, mentre i tre Black Eyed Dog appariranno suonando la loro “The favourite”. Questo perché, com’è solito dire Fabio, “i Black Eyed Dog ci mettono la faccia e anche la musica”.
(Pubblicato in versione ridotta su Shiver)