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(2013)

Rick Redbeard, al secolo Rick Antony, è uscito dal gruppo, almeno temporaneamente. L’ha fatto per racchiudere in dieci canzoni quello che non poteva dire con la sua Phantom Band, attualmente in fase di riflessione e con i diversi membri occupati in relativi progetti solisti. E se nel Regno Unito la band è conosciuta come una delle realtà più interessanti dell’indie rock di quest’ultimo periodo, in No Selfish Heart il cantautore scozzese mostra un lato inaspettato, pieno di ballate folk e richiami alla tradizione musicale scozzese (come la cover di “Kelvin Grove”).

L’idea di una sorta di alter ego dev’essere nata a metà dello scorso anno quando, con l’amico e collega Adam Stafford, ha inciso unosplit nel quale canta due brani, “Now We’re Dancing“ (inserita anche in questo disco) e “All Of My Love”. “Clocks”, che a un primo ascolto potrebbe sembrare un brano completamente slegato dall’atmosfera ricorrente del disco, apre un album che comprende canzoni scritte nell’arco degli ultimi dieci anni e che tocca temi universali, spesso in modo cupo (come nella bellissima “Any Way I Can”), ispirato dalla sua terra, dalla natura e dall’amore, dalla memoria e dal tempo che, inesorabile, sfugge sotto i nostri occhi. I testi rimandano all’atmosfera di alcuni libri di Cormac McCarthy (passione di Rick Redbeard), con immagini efficaci e immediate (come in “Any Way I Can”) ma anche con un velo di malinconia presente per l’intero ascolto, che raggiunge punte pessimiste in “Cold As Clay (The Grave)”, dove canta “I can see them with their baying hounds and howling wives”. Musicalmente “No Selfish Heart” potrebbe ricordare a tratti il Johnny Cash dell’ultimo periodo o far intravedere leggere influenze di Leonard Cohen e di Bill Callahan. E se “A Greater Brave” strizza l’occhio al country, “We All Float” riporta a un vecchio Neil Young d’annata, con una voce più pulita e dei suoni nuovi. Il tutto con arrangiamenti intimisti che fanno leva ora sul suono del violino ora sull’arpeggio di un pianoforte o, ancora, sul suono della chitarra acustica, sempre presente. Canzoni tenute nel cassetto per quasi dieci anni, per evitare che il suono della band le stravolgesse, facendo perdere loro quella leggerezza (e quella continua malinconia) che ora le contraddistingue.

“No Selfish Heart” si può quindi definire una sorta di autoterapia eseguita attraverso un alter ego, dove le canzoni appagano l’ascoltatore e procurano un sottile piacere anche nell’autore, quel piacere che si ha nel vedere le cose a una certa distanza, raccontandole come qualcosa di oramai passato e distante.

(Pubblicato su Shiver)